Serafino Malaguarnera
  • Accueil
  • Chi sono
  • Attività
  • Le pubblicazioni
  • Contatti
  • Video
  • Links
  • Homepage /
  • Pages cachées /
  • Il sommo bene e il dopo analisi

Il sommo bene e il dopo analisi

 

Serafino Malaguarnera

 

Il sommo bene e il dopo analisi

 

 

1.Introduzione

 

Questo lavoro si prefigge di mettere in relazione due temi presi da due campi di sapere diversi e rispettivamente dalla filosofia e dalla psicanalisi. Entrambi i temi hanno mobilitato i maggiori pensatori dei loro saperi. In campo filosofico, il sommo bene è stato un tema dominante nel periodo classico ed ellenistico vale a dire dal punto di vista della storia della filosofia è stato un tema che ha interessato i primi filosofi per poi cessare d'essere col passare dei secoli  un polo d'attrazione filosofico. In campo psicanalitico è l'inverso, il dopo analisi è stato solo recentemente oggetto d'interesse psicanalitico. Se guardiamo Freud, vediamo che a mano a mano che procede con le scoperte si fa sempre più sentire il problema della fine dell'analisi. Solo verso la fine della sua carriera scriverà "analisi terminabile ed interminabile", in cui lo stesso titolo indica la problematicità della fine dell'analisi. Questo scritto mette dunque in relazione due saperi diversi tra loro, e più precisamente vuole attingere dal sapere filosofico degli elementi in più per affrontare con più ampio respiro una questione della psicanalisi.

Forse molti psicanalisti non si sentiranno a proprio agio nell'adottare quest’operazione, visto che inoltre lo stesso padre della psicanalisi ha diverse volte dichiarato un certo disinteresse  per la filosofia. Per fare qualche esempio, nel 1925, nella sua autobiografia, Freud dice di avere sempre "évité soigneusement de s'approcher de la philosophie proprement dite" dato che "une incapacité constitutionnelle lui a beaucoup facilité cette abstention" [1] e nel 1930, risponderà ad una richiesta di prendere posizione su delle questioni di filosofia che "les problèmes philosophiques et leurs formulations me sont si étrangers, que je ne sais qu'en dire"[2]. Ma ad una lettura più attenta dei testi di Freud, il suo atteggiamento verso la filosofia appare molto più sfumato e addirittura ambivalente. In effetti, come lo dimostra Paul-Laurent Assoun, "d'un côté, Freud n'a pas de formules assez tranchantes pour débouter la philosophie de ses prétentions à légiférer sur la science psychanalytique; de l'autre, il en reconnaît humblement l'importance dans "l'activité de pensée" humaine. D'une part, il lance aux philosophes des sarcasmes qui frisent la caricature et le lieu commun, d'autre part, on observe le retoure régulier de référence à certains systèmes, qui semblent remplir une fonction nécessaire dans l'argumentation freudienne en ses endroits décisifs"[3].

Assoun rileva nella vita di Freud due momenti,  nella prima fase della sua vita di studente e ricercatore amava la filosofia, nella  seconda fase invece la disdegna completamente. A proposito quest'autore ci dice che "Freud semble s'être si courageusement écarté de la spéculation philosophique, qu'il a perdu jusqu'à son souvenir et ne veut plus la reconnaître. Simultanément critique et sarcasmes envers les philosophes se multiplient, tandis que, per un paradoxe déroutant, les références à des théories philosophiques précises investissent le discours"[4]. In altre parole quello che Freud ha voluto dimenticare e rimuovere per amor della scienza ritorna nei suoi scritti sotto forma di citazione, sembrerebbe che ci sia quasi una similitudine con il meccanismo della rimozione. Dopo Freud, alcuni psicanalisti come per esempio Lacan, hanno fatto delle vere e proprie ricerche filosofiche per chiarire delle questioni analitiche.

 

  1. Il sommo bene e Freud

                                               

            Freud si è sempre interessato agli aspetti psicanalitici legati alle grandi costruzioni sociali, etiche e religiose della civiltà umana e ne troviamo in totem e tabù un primo resoconto sistematico per continuare in “Considerazioni attuali sulla guerra e la morte, in Psicologia delle masse e analisi dell'Io (1921) e nel Avvenire di un'illusione (1927), senza citare altre opere in cui questi temi sono ripresi. Questo filone della ricerca freudiana trova la sua ultima espressione compiuta in un opera iniziata nell'estate del 1929 il cui titolo originario era Das Ungluck in der Kultur, dove in seguito l’espressione Ungluck (infelicità) fu attenuata in Unbehagen (disagio). In quest’opera le due parole sommo bene non compiono neanche una volta, ma vedremo come in fondo questo ultimo scritto di Freud è una dissertazione moderna sul sommo bene.

            Questo scritto si apre con una risposta a Romain Rolland il quale, dopo una lettura de l'avvenire di un'illusione, gli aveva comunicato un disaccordo a proposito della verità sulla religione. Con il secondo capitolo, Freud entra nel vivo dell'argomento analizzando le forme assunte dalla ricerca di felicità propria dell'uomo, le difficoltà che essa incontra, e i modi con cui l'individuo cerca di superare tali difficoltà. Nei capitoli restanti, analizza estesamente in che modo la civiltà che si prefigge di proteggere l'umanità dalla natura e di regolare le relazioni degli uomini tra loro incide ai fini della felicità del singolo. L'opera termina con una conclusione pessimistica: per le eccessive restrizioni che la civiltà opera sia sulle pulsioni sessuali che pulsioni aggressive e l'accrescersi del sentimento di colpa che ne consegue, la civiltà si sviluppa a prezzo di una perdita di felicità da parte del singolo.

            In questo scritto il concetto di felicità riveste una funzione di filo conduttore e ricordiamo che il concetto opposto, l'infelicità, fu scelto inizialmente da Freud per costituirne il titolo. Nel secondo capitolo, quando egli si chiede che cosa gli uomini perseguono nei loro atti e che cosa si attendono dalla loro vita, il padre della psicanalisi non dubita che essi "tendono alla felicità, vogliono diventare e rimanere felici. Questo desiderio ha due facce, una meta positiva e una negativa: mira da un lato all'assenza del dolore e del dispiacere, dall'altro all'accoglimento di sentimenti intensi di piacere. Nella sua accezione più stretta la parola felicità viene riferita solo al secondo aspetto. Conformemente a questa bipartizione delle mete l'attività degli uomini si sviluppa in due direzioni, secondo che cerchi di raggiungere - in misura prevalente o addirittura esclusiva - l'uno o l'altro obiettivo". Purtroppo consta che ciò a cui gli uomini tendono non può essere raggiunto e  il resto del saggio è una lunga disquisizione per sostenere che la costituzione psichica dell'uomo e la costituzione della cultura non permettono all'uomo di raggiungere la felicità.

            Conoscere le teorie alle quali un autore si riferisce esplicitamente o implicitamente aiuta a situare e capire meglio il pensiero di quest’ultimo. Apriamo dunque una parentesi per tracciare le coordinate culturali-filosofiche dell’epoca alle quali quest’opera di Freud poteva riferirsi.

Secondo Assoun, Freud "adhère à un certain mode de penser qu'on est en droit de référer à l'ulitarisme, à entendre non au sens strict du courant qui port ce nom - il n'y  a pas de lien direct de Bentham à Freud, tandis que J.S.Mill, salué en 1883 comme "peut-être....homme de ce siècle le plus capable de se libérer des préjugés courants", l'aura marqué par son -associationnisme logique- mais comme en termes d'économie et d'utilité (en contraste avec tout "téléologisme" métaphysique)"[5]. J.S.Mill è considerato uno dei teorici più lucidi del moderno utilitarismo, fondato da Bentham il quale basava la sua filosofia sul principio di associazione e sul principio della massima felicità. Riguardo al secondo principio, sosteneva che l'essere umano trova i motivi del proprio agire nel raggiungere il piacere ed nell'evitare il dolore. Egli sosteneva che ciò che è buono è il piacere o la felicità, usando queste parole come sinonimi, e ciò che è cattivo è il dolore. Quindi uno stato di cose è migliore di un altro se implica una maggior quantità di piacere che il dolore  o una minor quantità di dolore che di piacere. Egli non sostenne solo che il bene è la felicità in generale, ma anche che ogni individuo persegue sempre quella che egli crede sia la sua felicità.  Egli porto inoltre diversi argomenti in favore dell'idea che la felicità generale sia il Sommo Bene. L'utilitarism è una dottrina che ha le sue origini nel pensiero greco ritrovandosi già compiutamente articolata in Protagora e, con inclinazioni più nettamente edonistiche, nei cirenaici e negli epicurei. In età moderna, questo pensiero fu ripreso da B.Telesio e soprattutto da Th.Hobbes.  Ma è con J.Bentham, alla fine del sec. XVIII, che assume l'aspetto di una scuola di pensiero, alla quale J.S.Mill diede il nome  di utilitarismo. In grande linee, la differenza tra l'utilitarismo e i filosofi dell'antica Grecia sta inanzittutto nel principio sociale dell'utilitarismo il quale recita che non c'è vero utile per l'individuo se esso non favorisce anche il maggiore bene possibile per tutti e, senza scendere nei dettagli, in esso i concetti di piacere, bene, felicità e sommo bene sono sinonimi, mentre nel pensiero greco godevano di una significazione propria.

            Adesso, risulta evidente che quest'opera di Freud vuole essere un testo di rottura rispetto a tutta una tradizione edonistica: rispetto agli utilitaristi, i quali sostenevano che lo scopo della società è di realizzare la massima felicità possibile per il più gran numero di persone e rispetto agli epicurei, i quali sostenevano che l'individuo può raggiungere la felicità attraverso la ricerca del piacere.

            Per capire in che cosa Freud si differenzia da tutta una tradizione edonistica, bisogna approfondire il suo concetto di piacere. Laplanche e Pontalis, nel loro dizionario di Psicanalisi, mettono subito in contrapposizione il principio di piacere, nel definirlo, alla tradizione edonistica: "Con tale principio egli intendeva, a differenza delle dottrine edonistiche tradizionali, non già che la finalità perseguita dall'azione umana sia il piacere, bensì che i nostri atti sono determinati dal piacere o dal dispiacere procurati al momento attuale dalla rappresentazione dell'azione da compiere o delle sue conseguenze. Egli nota inoltre che queste motivazioni possono non essere percepite coscientemente: ....è del tutto naturale che, quando i motivi si perdono nell'inconscio, ciò avvenga anche per il piacere e il dispiacere."[6]

Per approfondire queste questioni, seguiremo il commento di Lacan, il quale dedico il seminario degli anni 59-60 all'etica della psicanalisi, perché, come afferma nella sua prima lezione, le psicanalisi ha qualcosa da dire sull'etica.

            Nello stendere il programma che seguirà il seminario, Lacan evidenzia la lontananza dell'etica della psicanalisi da qualunque dottrina morale-valoriale che lega l'etica al piano dei valori ideali, mentre la psicanalisi la vincola al piano del reale; questo passaggio dall'ideale al reale, sostiene Lacan, era in parte già stato annunciato dall'utilitarismo, il quale libera l'etica dall'assillo dei valori, dalle ombre degli ideali, riconducendo il fondamento all'utile e al principio del bene soggettivo. Mentre l'apporto di Freud, nel passaggio dall'ideale al reale, è di avere pensato il godimento come non coincidente né con l'utile né con il bene del soggetto. Questa svolta etica, lacan la ritrova già in uno dei primi testi di Freud, il Progetto di una psicologia, facendone oggetto di una lettura articolata e precisa. Prendendo in considerazione questo testo, egli dimostra inoltra che la psicanalisi fu già al suo nascere un'esperienza etica.

            Freud sostiene che il sistema U  deve sempre ritenere un certo livello di quantità Qn e che la  scarica non può essere completa perché allora il sistema psichico raggiungerebbe il livello zero e arriverebbe cosi ad un riposo ultimo. Qui subentra il principio di piacere che ha lo scopo di regolare il funzionamento dell'apparato psichico al fine di mantenere l'investimento su dei livelli costanti. L'evoluzione dell'apparato U rimpiazza la quantità semplice con la quantità più la Banhung; Lacan osserva che questo termine "Banhung", tradotto in inglese con  facilitation, evoca piuttosto la costituzione d'una via di continuità o ancora di una catena. Questa Banhung è formata dalla trama delle vorstellungen che si richiamano una con l'altra secondo le leggi di una organizzazione di memoria. Il principio di piacere può cosi funzionare trasferendo la quantità energetica da Vorstellung in Vorstellung. Freud parlerà più tardi, nel suo articolo sull'inconscio, piuttosto di Vorstellungsreprasentanz che di Verstellung facendo diventare quest'ultimo un elemento associativo o combinatorio. In altri termini il principio di piacere consisterebbe in una sorta di mantenimento dell'equilibrio fra vari livelli e catene  di trasmissione della sensazione, dell'affetto, del pensiero; queste varie catene sono quelle di trasmissione di quegli elementi che si inanellano uno sull'altro e che sono i significanti.

Il fatto che il piacere corrisponda a questa suddivisione in rami il più possibile equilibrati, senza sbalzi di investimento, significa che il principio di piacere può portare a qualunque piacere, ma non porterà mai, per il fatto di fondarsi sulla suddivisione dell'investimento, al piacere fondamentale. In altri termini, il principio di piacere consiste nell'impedire il piacere fondamentale, che gli esseri parlanti vanno cercando senza mai poterlo trovare e che può apparire soltanto come un piacere perduto. Tutto l'esperienza umana consisterebbe nel cercare, lungo la strada che ci impedisce di trovarlo, un piacere fondamentale che continueremo a ricordare di avere avuto senza mai poterlo ritrovare. Questo piacere fondamentale è quello perduto a partire dall'ordine significante, cioè a partire dalla suddivisione degli investimenti.

            Per articolare la questione intorno all'oggetto perduto a partire dal quale esisterebbe un piacere fondamentale, Lacan introduce Das Ding. Quando Freud affronta nell'Entwurf l'incontro del soggetto con la realtà, dice che "Ainsi le complexe du Nebenmesch se sépare en deux parties, dont l'une s'impose par un appareil constant, qui reste ensemble comme chose - als Ding[7]". Il soggetto dunque isola, nella sua prima esperienza del Nebenmensch, la Ding come elemento estraneo, Fremde. Questo elemento Fremde è il primo esteriore intorno al quale si polarizza tutto il cammino del soggetto. Per Lacan, Das Ding, di cui egli cita Kant per dire che è inconoscibile, è l'Altro assoluto del soggetto ed il soggetto intrattiene con essa una relazione originaria, e dunque può conoscerla, in quanto all'inizio la madre occupa il posto della Ding.  Das Ding è inoltre, seguendo le indicazioni di Freud, ciò che la legge fondamentale, ossia la proibizione dell'incesto, impedisce di ottenere.

            Lacan individua il sommo bene, riprendendo questo termine dalla filosofia antica, nella Cosa e dice a proposito: "Ebbene il passo fatto, a livello del principio di piacere, da Freud, è di mostrarci che non c'è bene sommo, che il bene sommo è Das Ding, che è la madre, l'oggetto dell'incesto, che è un bene interdetto e che non c'è altro bene. Questo è il fondamento, rovesciato in Freud, della legge morale"[8].   Dopo questo lungo raggiro possiamo tirare le somme del discorso: nel disagio della civiltà, Freud vede nella felicità la meta alla quale aspirano gli esseri umani, per raggiungerla bisognerebbe trovare il massimo del piacere. Il bene che permetterebbe di raggiungerlo è vietato dalla nostra cultura e addirittura la nascita e l'esistenza della nostra cultura si basa proprio su questo divieto originario. Questo bene o sommo bene coincide con la madre. Lacan parlerà di Cosa, e dirà inoltre che è l'Altro. Visto che l'Altro non esiste, anche la Cosa non esiste e di conseguenza anche il sommo bene non esiste. Almeno dal punto di vista logico, la psicanalisi ha sempre affrontato la felicità e il sommo bene sul versante di ciò che può procurare piacere. Freud rompe con una tradizione edonistica, rimanendo sempre ancorato ai termini edonistici di una trattazione sulla felicità: vale a dire l'uomo vuole ottenere il massimo dei piaceri per essere felice ma questo non è possibile. Possiamo passare alla filosofia del mondo greco, quando sono sorte le grandi etiche, e vedere le diverse prospettive in cui venivano affrontati i temi della felicità e del sommo bene.                   

 

  1. Il sommo bene e la filosofia antica

 

            Per addentrarci nella questione del sommo bene, partiremo da Cicerone il quale scrisse negli anni ’40 a.C un libro dal titolo il sommo bene e il sommo male. Marco Tullio Cicerone (Arpino 106 - Gaeta 43 a.C.), scrittore, oratore e uomo politico, segui una formazione filosofica eclettica secondo gli usi culturali prevalenti nel suo temo. Studio ad Atene, Alessandria e Rodi con Filon di Larissa, con i neoaccademici Antioco d'Ascalona e Posidonio, con gli epicurei Fedro e Zenone, e con lo stoico Diodoro.  Le opere filosofiche di Cicerone sono prive di vera originalità, ma come ricorda C.Marchesi (cercare la bibliografia) esse sono dotate di tale forza divulgatrice da avere permesso la diffusione del pensiero greco nel mondo come nessun Greco sarebbe stato capace di diffondere ed inoltre ha tramandato una gran copia di notizie sul pensiero stoico, epicureo e neoaccademico alla quale hanno attinto gli studiosi moderni.  Sebbene Cicerone dichiarasse apertamente i propri intenti riassuntivi e compilatori, consistenti nel prestare la propria abilità letteraria ai concetti filosofici greci, in questa sua opera che prendiamo in esame, egli dichiara, proprio in apertura del saggio, che".....non mi limito all'ufficio del traduttore, ma espongo fedelmente le teorie dei pensatori che ritengo validi e ad esse aggiungo il mio personale giudizio  e la mia personale struttura del discorso". La posizione di eclettismo che gli viene attribuita dalla storia della filosofia può essere messa di lato per questo saggio e come osserva F.Demolli nell'introduzione alla traduzione italiana, "non si può parlare di eclettismo dove, di fronte ad un problema fondamentale di etica, lo scrittore espone, discute, critica le varie dottrine e dal confronto fra le stesse fa risaltare i compiti primari della sapientia, della filosofia[9]". In questa opera, egli segue il modo di procedere filosofico che trasse interamente dall'Accademia il cui elogio conclude il discorso del De devinatione.

            Il titolo in latino dell'opera di cui ci stiamo occupando è De finibus bonorum et malorum, tradotto in italiano con Il sommo bene e il sommo male. Cicerone si sforzò sempre di trasporre con miticolisità in lingua latina i termini e i concetti del pensiero greco, sostenendo che la lingua romana non era meno della lingua greca e che dunque i termini greci potevano trovare un corrispettivo nella lingua romana, ma questa operazione doveva richiedere sempre molta attenzione; in questo modo inoltre diede origine a una tradizione terminologica che è giunta sino ai nostri giorni. In quest'opera, il termine finis vuole tradurre in lingua romana il termine e concetto greco telos. Diverse volte nel testo, egli adopera il termine latino 'summus' per indicare questo concetto, ma per intitolare il saggio e quando spiega l'intento del libro all'inizio preferisce il termine latino  finis. Il termine finis si presta meglio a tradurre il concetto greco telo  in quanto raccoglie a sé diverse significazioni, come per esempio da un lato in concetti di grado supremo, culmine, colmo, sommità, somma perfezione  e da un altro lato i concetti di  fine, scopo, intenzione,mira. Tradurre il termine latino  finis  in lingua italiana può porre qualche problema perché non  ne abbiamo uno che raccoglie tutte queste significazioni. Tradurlo con sommo bene non è sbagliato ma ne appiattisce la significazione  e può anche provocare dei piccoli slittamenti di senso. Possiamo tradurre il titolo con  sui fini ultimi dei beni e dei mali; è vero che dire il sommo bene e il sommo male lo riassume, ma per riassumere dei termini bisogna averli prima in partenza. In effetti, Cicerone può parlare nel suo testo di  summus bonum  perché aveva già parlato in partenza di  finibus bonorum. Avremo modo di riprendere la questione del titolo più avanti.

            Il De finibus si articola in tre dialoghi, nei quali sono esposte ed esaminate criticamente le tre tesi fondamentali sul tema in esame: quella epicurea, la stoica e la peripatetica che possiamo anche nominare peripatico-accademico. Il primo dialogo, che tratta la tesi epicurea, è ambientato, nell'anno 50a.C., nella villa cumana di Cicerone, nella regione campana frequentata da una società in cui la predicazione epicurea era molto diffusa. Il secondo dialogo, che tratta la tesi stoica, si situa nell'anno 52 a.C. a Tuscolo, in una villa lasciata da Lucio Licinio Lucullo, amico di Cicerone. L'ultimo dialogo è ambientato, nell'anno 79 a.C., nell'Accademia di Atena, la culla della scuola platonica. I presenti di quest'ultima scena sono cinque giovani che si trovano a Atene per compiervi la formazione tradizionale dei giovani appartenenti alle casate che contano in Roma. I luoghi rievocano le più alte espressioni del pensiero e dell'arte greca e l'inizio del libro quinto riflette la struttura dei dialoghi di Platone. Come si vede, i dialoghi hanno una disposizione cronologica regressiva:il primo è immaginato più recente mentre il terzo è più antico. Il livello di adesione alle diverse tesi segue invece una disposizione progressivo: Cicerone è meno critico a mano a mano che passa da una tesi all'altra.

            La tesi epicurea viene esposta da Torquato che incomincia esponendone il fondamento: "ogni essere animato, subito dopo la nascita, ricerca il piacere e ne gode come di supremo bene, mentre ricusa il dolore come supremo male". Cicerone, che non nutre una grande stima per Epicuro considerandolo come un filosofo confuso ed incoerente, replica che Epicuro non sa decidere se il sommo bene sia il piacere propriamente detto o l'assenza di dolore e se il sommo bene consistesse nel piacere, il dolore, che ne consegue inevitabilmente, renderebbe infelice il sapiente e risulterebbero irraggiungibili anche le alte vette cui l'uomo con la ragione aspira.

            Sulla seconda tesi, Cicerone sostiene che gli stoici non fanno che riprendere le idee degli Accademici e dei Peripatetici, mutando soltanto i termini che sono oltretutto difficili da tradurre in latino. Catone espone la tesi stoica e dice, in sintesi, che (ha posto come fondamento del bene supremo la vita conforme a natura) il sommo bene coincide con la pratica della moralità, ossia la virtù, rendendo felice chi la raggiunge e la conserva per tutta la vita. Se la felicità del sapiente per la teoria accademico-peripatetica può subire variazioni quantitative e quindi il sapiente non è sempre felice, per gli Stoici ogni gradazioni non è possibile, perché soltanto la virtù è bene e tutti quelli che altri filosofi chiamano beni sono soltanto cose intermedie, indifferenti, né beni né mali, che, tutt'al più, possono essere o preferite  o  respinte.

            L'ultimo libro lascia quasi tutto lo spazio all'esposizione di Pisone che espone la teoria peripatetica, riallacciandola, sulla linea tracciata da Filone di Larissa e completata da Antioco, alla dottrina dell'Accademia antica. Cicerone considera le due scuole molto legate tra loro, "forse perché conosceva quasi esclusivamente le opere essoteriche di Aristotele, cioè quei dialoghi, a noi non pervenuti, composti dallo Stagirita all'inizio della sua attività sulle orme dell'insegnamento del maestro Platone"[10]. D'altra parte, Antioco affermava, radicalizzando la dottrina del suo maestro Filone, la necessità e la possibilità di ridurre ad una sola filosofia tutte le grandi filosofie considerate contrarie. Innanzitutto sostenne che lo stoicismo era una variante della filosofia aristotelica e che il platonismo e l'aristotelismo raggruppano tutte le possibilità di filosofia. Ed inoltre, ha negato le contraddizioni tra il platonismo e l'aristotelismo, sostenendo che fossero legate ad un problema terminologico e non di sostanza.

            Riassumendo, per questa ultima tesi, il saggio tende a raggiungere da una parte il bene assoluto che riguarda l'individuo, risultante dalla somma dei beni dell'anima e dal corpo, e da un altro lato a raggiungere il complesso dei beni esterni all'anima e al corpo dell'individuo, quali gli amici, la famiglia, la patria. Da un lato dunque abbiamo il sommo bene e da un altro lato abbiamo i beni esterni e come si esprime Pisone" non sarebbe mai possibile a chicchessia raggiungere il sommo bene, se tutti i beni esterni, pur appetibili, fossero compresi nel sommo bene"[11]. Sebbene Cicerone apprezzi l'intera esposizione di Pisone, non può accettarne le conclusioni perché se esistono altri beni al di là della virtù, esistono anche delle gradazioni di felicità per il sapiente.In modo schematico, per gli stoici non vi è altro bene che la virtù, mentre per i peripatetici vi sono dei beni esterni alla virtù. Cicerone, per conto suo, non accetta che non ci siano altri beni che la virtù  e non accetta che ci siano altri beni esterni alla virtù. Riguardo al titolo, possiamo capire meglio adesso che il termine ‘finibus’ si traduce meglio con "i fini ultimi" dei beni; in effetti gli stoici per esempio non avrebbero mai intitolato l'opera con "il fine ultimo dei beni" visto che non ci sono beni al di fuori del sommo bene, ma avrebbero intitolato l'opera il sommo bene.

            Replicando alle critiche di Cicerone, Pisone sostiene che è vero che il sapiente può essere felice in misura diversa, ma in questo non c'è contraddizione perché accanto alla virtù, bene assoluto, ci sono altri beni, che sono tali perché sono conformi a natura. Il dialogo si chiude in forma socratica: "Eppure, Pisone, questa è la posizione chiave, che dovrai più volte consolidare; se riuscirai a tenerla, non soltanto il mio Cicerone, ma anche me potrai portarti via"[12].

            L'opera non termine dunque con una vera e propria conclusione, ma quello che si delinea con precisione è che il sommo bene coincide con la virtù e le tesi che ci parlano di esso sono quella stoica e peripatica. Sebbene ne critichi molti aspetti, l'interesse di Cicerone si porta maggiormente sulla tesi stoica che considera, seguendo l'insegnamento di Antioco, una riedizione dell'Aristotelismo. Alla fine del commento di una tale dissertazione sul sommo bene, rimane per noi moderni molto difficile sapere quale significazione attribuire al concetto di virtù.

            Sicuramente Cicerone ci da qualche indicazione: per esempio, "come il cavallo è stato creato per correre, il bue per arare, il cane per la caccia, cosi l'uomo, come dice Aristotele, è nato, per cosi dire, dio mortale, destinato a due compiti, al pensiero e all'azione"[13]. Visto anche il maggiore interesse che egli ha accordato agi stoici per quanto riguarda la virtù, ci rivolgeremo ad essi per sapere in cosa consiste. Nel terzo libro, nell'esposizione della tesi stoica, catone si riferisce al concetto di homologhia, centrale per capire il concetto di virtù: "Infatti, per l'uomo prima avviene il suo accostamento a ciò ch'è conforme alla natura; ma appena l'ha colto o, piuttosto, ne ha acquisito la conoscenza, chiamata énnoia, e appena si è reso conto che le sue azioni devono essere regolate da un ordine e, si potrebbe dire, da un'armonia, ha considerato questa di molto maggior valore che non i doni naturali che primi aveva amati, e cosi, con i dati della conoscenza e della ragione, è arrivato a stabilire che in questo nesso ha sede quel sommo bene che di per sé dev'essere esaltato e ricercato. E, poiché esso consiste nella homologhia degli Stoici, che noi potremmo, volendo, rendere con "accordo", poiché, dunque, in questo consiste quel bene a cui tutta la vita deve riferirsi, le azioni morali, anzi la moralità nella sua essenza, cioè l'unico bene per noi, pur nata in un secondo tempo, deve costituire il solo oggetto della nostra ricerca per il suo proprio valore e per la sua dignità; mentre dei primi doni naturali nessuno dev'essere ricercato per se stesso."[14]

            Kojève, filosofo hegeliano francese del secolo scorso, scrisse in tre volumi un "essai d'une histoire raisonnée de la philosophie paienne", in cui propone una storia della filosofia pre-cristiana, da Talete ai neo-platonici, e in cui sviluppa una riflessione sulla filosofia, sviluppando una ricostruzione generale e sistematica dei discorsi filosofici. Nel terzo volume, la filosofia ellenistica e i neo-platonici, questo filosofo hegeliano approfondisce a più riprese lo stoicismo che, alla stregua di Cicerone che si rifaceva ad Antioco, considera una riedizione dell'aristotelismo, con qualche differenza, chiamandolo "aristotélisme dogmatisé". La questione che c'interessa qui risale alla teoria delle "tre vite" , risalente ai sofisti, che venne ripresa da Platone nel Filebo. In questo dialogo, abbiamo da un lato la morale di Eudoxe, nelle vesti di Filebo, per la quale il bene supremo o sommo bene, ossia ciò che può creare nell'uomo una disposizione d'animo capace di renderlo felice, è il piacere e tutto ciò che a esso è affine, ovvero la "terza vita", da un altro lato abbiamo l'etica Aristotelica, nelle vesti di Socrate, per la quale il sommo bene per l'uomo non può consistere né nel semplice intendere né nel semplice godere, ma consiste in una loro fusione, ovvero un miscuglio tra la prima vita e la terza vita. La seconda vita, che è la vita attiva e politica, viene invece deliberatamente ignorata da entrambi. 

            Se passiamo adesso dall'Aristotele del Filebo all'Aristotelismo autentico, come lo chiama Kojève, le tre vite vengono mantenute e gerarchizzate. L'atto puro o attualizzazione completa e perfetta sta dalla parte della teoria o prima vita, ma quest'atto suppone per esistere l'attività pratica la quale si manifesta in quanto piacere. E viceversa, la terza vita si attualizza pienamente nella seconda vita che a sua volta si attualizza pienamente nella prima vita. Per cui la perfezione della vita contemplativa teorica implica e suppone quella delle altre due. Secondo Aristotele, dunque, l'uomo può raggiungere la felicità attraverso la contemplazione teorica nella vita sensibile che si attualizza come vita pratica. Questo significa che nessuna delle tre vite per se stessa può garantire la felicità, se non il loro insieme gerarchizzato.

            Zenone e i suoi successori non hanno accettato questa gerarchia delle vite, e più precisamente non hanno mai voluto ammettere la superiorità della vita teorica. Crisippo rimpiazza la teoria classica delle tre vite con la coppia: vita teorica o scientifica e vita pratica, opposte alla vita secondo il logos, il quale è superiore alle prime due perché ne è una combinazione.

            Sulle tre vite, Crisippo sosteneva che "tre sono i tipi di vita: quello teoretico, quello pratico e quello razionale, e loro ritengono che il terzo sia da scegliersi in quanto la natura ha fatto l'animale razionale predisposto alla contemplazione e all'azione"[15]. Kojève traduce questo frammento con qualche commento in questo modo:"Il y a trois modes de vie: la vie théorico-scientifique, la vie pratico-politique et celle qui correspond au Logos (en tant qu'Action discursive qui est un Discours agissant). C'est la troisième qu'il faut choisir (la troisième vie étant, traditionnellement et chez Aristote, précisément créé par la Nature pour unir la théorie et la pratique[16]".

            Rinunciare all'azione per la sola vita contemplativa è altrettanto patologico che rinunciare alla vita contemplativa per l'azione. La vita eslusivamente contemplativa procura dei piaceri che sono altrettanto patologici che piaceri procurati dal corpo quando sono staccati dal loro complemento discorsivo. In atre parole, il sommo bene sta nel legame tra la vita contemplativa e la vita attiva., e come si esprime Kojève "les 'joies' de la vie contemplative (discursivement correcte) ne peuvent se présenter qu'en liaison avec les 'satisfactions' de la vie active (verteuse) et c'est la Satisfaction joyeuse, voire la joie satisfaite du Sage stoicien, à la fois contemplatif et actif,qui constitue le but supérieur ou le Telos de l'Homme, c'est-à-dire, si l'on veut, son parfait Bonheur, celui-ci n'étant rien d'autre que la manifestaion de la 'Raison' (logos) pendant toute la durée-étendue de son existence-empirique (d'ailleurs dé-finie ou finie), en tant que Discours agissant et Activité discursive. Vouloir agir sans (en) parler ou parler sans agir (en foncion de ce que l'on dit), c'est renoncer au Bonheur permanent ( bien que d'une durée-étendue dé-finie ou limitée) au profit de 'plaisirs' qui sont à al fois éphimères et dangereux, dans la mesure même où ils ont pathologiques"[17].

            Per concludere, la  Virtù  corrisponde alla homologhia (Cicerone e Catone) e come si esprime Kojève "les discours stoiciens ne peuvent pas et ne veulent même pas dé-montrer que l'Apathie est seule à être le Souverain bien, c'est-à-dire le Bonheur parfait, qui se suffit à lui même au point de pouvoir rester silencieux et donc nulllement gêné par le fait d'être ineffable (ou incommunicable). Tout ce que disent les Moralistes stoiciens suppose la monstration de ce Bonheur apathique et leur  démonstration a pour but de  prouver  que l'Apathie heureuse ne peut résulter que de la seule  Virtù, c'est-à-dire d'une vie qui est homo-logue parce que à la fois discursive et (naturellement) droite"[18].

           

  1. Ritorno alla psicanalisi e conclusione

 

            Dopo circa un secolo di psicanalisi, possiamo individuare con una certa precisione le ragioni che motivano una domanda d'analisi. Da un lato, il paziente vuole capire quello che gli succede per riuscire a fare quello che vuole e da un altro lato vuole capire perché le cose non vanno a livello del godimento. Schematizzando, le tre vite che abbiamo analizzato nel paragrafo sulla filosofia le troviamo qui sotto forma di questione: innanzitutto il capire, che corrisponde alla prima vita, l'agire che corrisponde alla seconda vita e il godimento che corrisponde alla terza vita.

            Per quanto riguarda l'azione, Lacan sosteneva che lo scopo dell'analisi è portare il soggetto all'azione, dunque in questo senso l'analisi non è che preludio all'azione. Perrella, confermando quest'idea, precisa che se di azione si può parlare riguardo all'analisi,  allora l'unica vera azione che compie il paziente è quando decide di fare un'analisi.

            L'intera cornice del setting analitico si muove all'interno della comprensione,e capire perché le cose non fanno a livello del godimento.

            Riguardo al godimento, l'analizzante spera che l'analista lo aiuterà a raggiungere il massimo dei piacere. Su quest'ultimo punto, il paziente ha un atteggiamento ambivalente: da un lato desidera i sentimenti intensi di piacere e da un altro lato fa di tutto per evitarli. Questo accade perché questi piaceri immaginati sono legati alla questione edipica: per il nevrotico il massimo dei piaceri coincide con il fantasma edipico. Come abbiamo visto nella parte sulla psicanalisi, nel seminario sull'etica, Lacan allarga a tutti gli essere viventi la problematicità della ricerca del piacere; gli essere umani ricercano il massimo dei piaceri il quale per sua natura è proibito e questo semplicemente perché coincide con il raggiungimento della Cosa, la quale inizialmente è la madre. Nei suoi seminari successivi, Lacan modificherà alcune articolazioni concettuali fatte nel seminario sull'etica. Negli anni settanta, dedicherà molti seminari per approfondire il suo aforisma "non esiste rapporto sessuale". Nel seminario ancora, articolerà la questione del godimento in un altro modo rispetto al seminario sull'etica. Ma lungo tutta l'opera di Lacan sulle questioni teoriche sul godimento, il godimento Altro, ovvero il massimo dei piaceri, rimarrà sempre presente. L'analizzante crede fermamente in questo godimento Altro, anche se mette in atto mille sistemi per evitarlo, e spera di poterlo raggiungere grazie all'analisi. Tutta l'operazione analitica gli mostrerà che esso non esiste, che il sommo bene tanto sperato non esiste.

            Se dunque l'analisi si chiude con amarezza sulla non esistenza del sommo bene sul versante del godimento Altro, essa, nel chiudersi, si schiude all'azione; finalmente l'analizzante potrà cominciare a  fare ciò che si prefigge di fare e potrà iniziare ad interessarsi ad un nuovo sommo bene che abbiamo estesamente analizzato nella seconda parte. In questo senso, la psicanalisi può essere vista come una forma moderna di preparazione alla formazione che porta alla saggezza.

            Concludiamo questo lavoro con un passo di Cicerone: "Quanto a noi, dobbiamo giudicare la felicità non dopo che abbiamo cacciato il male, ma dopo che abbiamo guadagnato il bene, e dobbiamo cercarla non nell'inazione, sia che si tratti della felicità del godimento, come piace ad Aristippo, sia della felicità del non dolore, come vuole quest'altro, ma nell'attività e nella meditazione."

 

 

[1] Opere di Freud, X, 1925, autobiografia

[2] Opere di Freud, 1930

[3] Assoun P-L. (1976), Freud, la philosophie et les philosophes, .P.U.F., p.58.

[4]Assoun P-L. (1976), Freud, la philosophie et les philosophes, .P.U.F., p. 66.

[5] Assoun P-L. (1976), Freud, la philosophie et les philosophes, .P.U.F., p..366.

[6] Laplanche J., Pontalis J.-B. (1967), Vocabulaire de la psychanalyse, PUF, p. 414.   

[7] Freud S, p.64.

[8] Lacan J., Le Séminaire, Livre VII, L’Éthique de la psychanalyse, Paris, Seuil, 1986, p. 85.

[9] Cicerone, Il sommo bene e il sommo male, Bompiani, 1992, p. XXV.

[10] Cicerone, Il sommo bene e il sommo male, Bompiani, 1992, p. XXXIV.

[11] Cicerone, Il sommo bene e il sommo male, Bompiani, 1992, p.323.

[12] Cicerone, Il sommo bene e il sommo male, Bompiani, 1992, p.345.

[13] Cicerone, Il sommo bene e il sommo male, Bompiani, 1992, p.87.

[14] Cicerone, Il sommo bene e il sommo male, Bompiani, 1992, p.165.

[15] Stoici antichi: tutti i frammenti, a cura di G. Reale, 2002, p. 1315.

[16] Kojève A., Essai d'une histoire raisonnée de la philosophie païenne, tome 3, p. 169.

 

[17] Kojève A., Essai d'une histoire raisonnée de la philosophie païenne, tome 3, p. 191 - 192.

[18] Kojève A., Essai d'une histoire raisonnée de la philosophie païenne, tome 3, p. 62.      

Aggiungi un commento

Visualizzare
 

Pagine

  • Psicoterapia individuale
  • Terapia di Coppia
  • Studio Anderlecht
  • Studio Ixelles
  • Le pubblicazioni
  • Dizionario di Psicologia e Psi
  • Il mio bambino è iperattivo o

Newsletter

Studio

‹ ›