Lacan, Merleau-Pont, Sartre : L' Occhio e lo Sguardo
Serafino Malaguarnera
L’occhio e lo sguardo
Il visibile e l’invisibile
Tra i pensatori di rilievo del secolo scorso che si sono soffermati sull’occhio ha sicuramente un posto di riguardo Merleau-Ponty. La sua ultima opera, “Il visibile e l’invisibile”, può essere considerato “il punto d’arrivo della tradizione filosofica – quella tradizione che inizia da Platone con la promozione dell’idea, di cui può dirsi che, partita da un mondo estetico, termina e si determina nell’assegnare all’essere il fine di sommo bene, raggiungendo così una bellezza che ne è senza il limite. Non per nulla Merleau-Ponty ne riconosce nell’occhio il fattore portante.”[1]
In un’opera precedente, la fenomenologia della percezione, Merleau-Ponty sostiene che l’occhio e la presenza soggettiva del soggetto presiedono alla regolazione della forma[2]. In “Il visibile e l’invisibile”, sostenendo sempre la tesi sviluppata in Fenomenologia della percezione, fa un passo successivo: attraverso il cammino che percorre in quest’opera, arriva a parlare di una preesistenza di uno sguardo e questo significa che il soggetto vede solo da un punto, ma nella sua esistenza è guardato da tutte le parti[3]. Questo significa che in un’analisi fenomenologia della percezione dell’essere umano, non è sufficiente analizzare solo la parte visiva, ma bisogna tenere conto anche della parte invisibile, vale a dire di questo sguardo onnipresente al quale l’essere umano è sottomesso in modo originario.
La differenza tra occhio e sguardo è stata messa in evidenza anche nel campo della biologia, ed in particolare nello studio del mimetismo.
Il mimetismo
Il mimetismo, nel senso ampio del termine, comprende una moltitudine di fenomeni assai differenti gli uni dagli altri ed è “un fenomeno essenzialmente enigmatico e di conseguenze ha dato luogo ad innumerevoli controversie”[4]. Per mettere un po’ di chiarezza su questa moltitudine di fenomeni, sono stati fatti diversi raggruppamenti secondo diversi criteri. Nell’opera di Hugh B.Cott, « Adaptive Coloration in Animals », divenuta una pietra miliare in questo campo di studi, viene fatta una classificazione sulla base della colorazione e della morfologia dell’animale. Fondamentalmente ci sono dei colori destinati a confondere (apatetici) e i colori destinati a produrre un avvertimento (sematici).
Caillois propone un altro principio a partire dal quale effettuare la ripartizione: “considerare innanzi tutto la natura dei risultati cercati od ottenuti dall’animale”[5]. Questo principio lo porta ad individuare i tre casi seguenti: il travestimento, che si ha quando l’animale tenta di farsi passare per un esemplare di un’altra specie, la mimetizzazione, grazie alla quale l’animale giunge a confondersi con il suo ambiente ed infine l’intimidazione, che si ha quando l’9animale paralizza o spaventa il suo aggressore, oppure la sua preda, senza che questo terrore possa essere giustificato dalla presenza reale di un pericolo corrispondente. Intorno al mimetismo, si discute da un lato per sapere se la somiglianza che questo fenomeno implica sia o meno un’illusione dell’osservatore umano, e d’altro lato, di stabilire se essa procuri o meno una protezione efficace all’animale. Gli studiosi di scienze naturali intravedono due soluzioni per le quali prendere partito: il mimetismo esiste e dunque è utile il mimetismo non serve a niente e dunque si tratta di una semplice illusione ottica dell’osservatore.
Caillois, nella sua opera “L’occhio di Medusa”, critica il riferimento all’adattamento per spiegare i fenomeni di mimetismo e sostiene che il mimetismo non serve a proteggere l’animale dai predatori: i suoi pretesi effetti selettivi sono annientati dalla constatazione che nello stomaco degli uccelli, particolarmente di quelli predatori, si trovano altrettanti insetti ritenuti protetti da qualche mimetismo, quanti sono gli insetti che non lo sono. Dopo aver individuato nel mimetismo la compresenza di tre funzioni – travestimento, mimetizzazione e intimidazione – questo autore indica nell’ultima di esse la chiave di volta dell’intero problema. Quando l’insetto adotta le fattezze di un animale di specie diversa non lo fa per rendersi irriconoscibile, ma lo fa per lasciar trapelare, all’improvviso, un aspetto terrificante. Al centro delle proprie analisi, Caillois pone la presenza degli ocelli, riscontrabile in quasi tutti gli insetti che adottano comportamenti mimetici. Simili ad occhi orrendi e sproporzionati, gli ocelli catturano lo sguardo dell’eventuale predatore o della vittima che dovrà fornire il pasto all’insetto che di essi è munito. Ed è precisamente in funzione dell’apparizione di questo sguardo paralizzante che l’animale ha preparato la sua messa in scena, assumendo un aspetto tale da risultare una cosa sola con l’ambiente.
In altre parole, Caillois analizza l’intimidazione e la fascinazione “attraverso un ripensamento degli ocelli e della maschera che tenta di superare ogni subordinazione della funzione dello sguardo all’organo sensoriale della vista. Viene così garantita allo sguardo un’autonomia (nei confronti dell’occhio) che ritroveremo sia…”[6]
Lacan, mentre tiene il suo seminario sui quattro concetti fondamentali della psicanalisi nel 1964, ritrova negli studi di Caillois quella che secondo lui è una delle migliori descrizioni del problema posto dall’esistenza di uno sguardo puro, in qualche modo staccato dall’occhio. Prima che ciascuno di noi si ponga di fronte al mondo per guardarlo ed osservarlo, ipotizza Lacan, vi è un gioco di sguardi nel quale noi siamo già da sempre catturati. Capovolgendo l’usuale punto di vista, secondo cui lo sguardo del soggetto ordina il mondo ridotto ad oggetto della visione, Lacan identifica nello sguardo dell’altro il punto di sutura dell’identità soggettiva: abbeverandosi a quella fonte, spesso oscura e ed inquietante, il soggetto infatti riceve ciò che gli manca per essere tale, si costituisce quale complesso organico e strutturato. Ma è chiaro che in tale processo è implicata anche una perdita, poiché nell’essere attratti da questo sguardo, o meglio dal fascino che da esso promana, sperimentiamo una mancanza di fondo, l’impossibilità di una completa padronanza di noi stessi[7].
Possiamo trovare un collegamento con la mitologia greca; come Perseo, siamo costretti a fare i conti con l’occhio di Medusa: se ci annientiamo in esso, siamo perduti, ma se sappiamo collocarci in modo adeguato nello spazio da esso dominato allora siamo salvi[8].
Di questa autonomia dello sguardo, che qui abbiamo considerato nel mondo animale, Sartre ci ha dato una rigorosa descrizione fenomenologica nel campo dell’intersoggettività umana, che sarà l’argomento della nostra prossima indagine.
Lo sguardo senza occhio
Nei primi capitoli dell’opera “L’essere e il nulla”, Sarte descrive la realtà partendo dai comportamenti negativi e dal Cogito, e da questa descrizione emerge che la realtà umana è-per-sé. Nel capitolo “l’esistenza d’altri”, si avvale dell’esame del sentimento della vergogna per dimostrare che la realtà umana non può ridursi all’è-per-sé. In un primo momento, possiamo dire che il sentimento della vergogna deve essere ricondotto al modo del per-sé, in quanto la sua struttura è intenzionale, è apprensione vergognosa di qualche cosa e questo qualcosa sono io. Tuttavia, dice Sartre, anche se alcune forme complesse e derivate della vergogna possono apparire sul piano riflessivo, la vergogna non è originariamente un fenomeno di riflessione. Se facciamo un gesto maldestro o volgare, questo gesto aderisce a noi e non lo giudichiamo né lo biasimiamo, ma lo viviamo semplicemente, o in altre parole lo realizziamo al modo del per-sé. Ma il sentimento vero e proprio di vergogna nasce quando alziamo gli occhi e vediamo qualcuno che ci vede, in quel preciso momento realizziamo la volgarità del nostro gesto. Così, Sartre conclude che la vergogna è “vergogna di sé di fronte ad altri; queste due strutture sono inseparabili. Ma, nello stesso tempo, ho bisogno di altri, per cogliere a pieno tutte le strutture del mio essere, il per-sé rimanda al per-altri.”[9] A questo punto, Sartre vuole rispondere a due domande: “prima di tutto quella dell’esistenza d’altri, poi quella del mio rapporto d’essere con l’essere altri”.
Se siamo seduti in un giardino pubblico e vediamo un uomo, quest’ultimo si presenta innanzitutto come oggetto. Le cose si complicano se vogliamo rispondere alla seguente domanda: che cosa intendo dire quando affermo di quell’oggetto che è un uomo? Secondo Sartre, per non rimanere sempre dell’essere oggetto, possiamo rispondere solo in questo modo: “se altri-oggetto si definisc in legame con il mondo come l’oggetto che vede ciò che io vedo, il mio legame fondamentale con altri-oggetto deve potere essere ricondotto alla mia possibilità continua d’essere vista da altri”[10]. Sartre conclude dunque che l’altro è essenzialmente “quello che mi guarda”.
A questo punto, per spiegare il senso di questo sguardo Sartre scrive: “ogni sguardo diretto verso di me si manifesta collegato all’apparizione di una forma sensibile nel mio campo percettivo, ma , contrariamente a ciò che si potrebbe credere, non è legato a nessuna forma determinata. Senza dubbio, ciò che manifesta più spesso uno sguardo è la convergenza verso di me di due globi oculari. Ma uno sguardo può anche essere dato da un fruscio di rami, da un rumore di passi seguiti da silenzio, dallo sbattere di un’imposta, dal leggero movimento di un tenda... ”[11]. Lo sguardo è dunque posto ontologicamente come una funzione del tutto indipendente dagli organi sensoriali visivi, cioè dagli occhi vedenti di un altro. In altre parole lo sguardo possiede un carattere non oculare e questo può portare ad identificare lo sguardo in qualsiasi cosa che faccia macchia nello spettacolo del mondo. “Lo sguardo viene dunque determinato come una funzione indipendente dall’organo occhio, in salto decisivo al di là della descrizione psicologistica e di ogni riduzione del vedere a una dimensione percettivo-sensoriale soggettiva e costituente”[12].
Dall’analisi fenomenologica di Sartre sullo sguardo possiamo estrarre un altro enunciato fondamentale: dato che lo sguardo possiede un carattere non oculare e può essere identificato in qualsiasi cosa che faccia macchia nello spettacolo del mondo, l’altro che Sartre definisce come colui che essenzialmente “mi guarda” può essere scritto con l’A maiuscola. “Lo sguardo che incontro – lo si ritrova nel testo di Sartre – è, non già uno sguardo visto, ma uno sguardo da me immaginato nel campo dell’Altro”[13].
Ritratto del mondo come voyeur
Nel seminario del 1953 – 1954, Lacan aveva ripreso la tesi di Sartre sullo sguardo, affermando che lo sguardo di cui siamo oggetto non si confonde assolutamente col fatto che ci siano degli occhi che mi vedono: “lo sguardo è una x…è ciò che guarda senza vedere”[14]. Nel seminario XI del 1964, tutti i temi che abbiamo affrontati fino adesso sull’occhio e lo sguardo vengono ad incrociarsi. In questo seminario,Lacan articola la fenomenologia sartriana dell’autonomia dello sguardo insieme all’analisi fenomenologica di Merleau-Ponty e alle teorie sul mimetismo di Caillois, cogliendone i punti fecondi per fondare una teoria della visibilità che possa spiegare alcune questioni psicanalitiche.
Come abbiamo visto, nella “svolta ontologica” dell’ultimo Merleau-Ponty, si delinea un’originaria sottomissione del soggetto al vedere e alla visibilità, tanto da potere parlare di uno sguardo onnipresente al quale l’essere umano è sottomesso in modo originario. A proposito di questo ultimo Merleau-Ponty, Lacan dice che nell’ultima opera di questo filosofo si disegna “la ricerca di una sostanza innominata, da cui io stesso, il vedente mi estraggo. Da reti o se volete da raggi di un gatteggiamento di cui io inizialmente sono parte, sorgo come occhio, assumendo, in un certo modo, emergenza da ciò che potrei chiamare la funzione della veditura (voyure)[15].
Lacan concorda con le critiche di Merleau-Ponty alla concezione cartesiana della visione e dello spazio, per la quale, da un lato il soggetto è un punto geometrale e un punto di prospettiva e da un altro lato la vista è subordinata al tatto. Per Lacan, così come per Merleau-Ponty, nella concezione cartesiana abbiamo solo un reperimento dello spazio e non della vista. Per dimostrarlo, lacan oppone e inscrive, nel triangolo che lega il soggetto come punto geometrale all’oggetto, un triangolo rovesciato in cui, rispetto al punto di origine di uno sguardo del mondo, è il soggetto stesso che “fa quadro”.
Nella concezione cartesiana viene meno la luce perché ridotta a una retta che lega il soggetto come punto di origine a ogni punto dell’oggetto visto. Questo significa che non si può cogliere che cosa è dato dalla luce, o in altre parole, nella concezione cartesiana, è impensabile qualsiasi reversibilità che da questi punti luminosi del mondo si possa fare sorgere il soggetto come quadro.
Scissione tra sguardo e occhio
Abbiamo visto nei diversi autori che la funzione oculare deve essere distinta dalla funzione dello sguardo. A Lacan interessa la schisi tra sguardo e visione così ha la possibilità di aggiungere “la pulsione scopica alla lista delle pulsioni. Se si sa leggere, ci si accorge che Freud la mette in primo piano già nelle Pulsioni e loro destini, e mostra che essa non è omologa alla altre. Infatti è quella che elude più completamente il termine della castrazione”[16].
Lo sguardo come oggetto
Anamorfosi
La nostra ultima tappa d’indagine in campi diversi dalla psicanalisi, per trovare ulteriori chiarimento sul tema della relazione tra seduzione e sguardo, è la pittura.
Tutte le analisi fenomenologiche sulla pittura fatte da Merleau-Ponty dimostrano che essa non rappresenta il visibile, ma presenta del visibile; questo significa che quando si parla della pittura non si può partire da un rapporto rappresentativo del suo visibile ad altri visibili già dati, ma occorre invece cogliere la sua creazione di una piega nella visibilità, ed intenderne il senso a partire dal suo rapporto con lo sguardo. Questo è del tutto evidente, per esempio, con la pittura di Cézanne, la quale è caratterizzata dallo sforzo di liberarsi dalle forme date e dall’illusionismo della rappresentazione.
Claudel, in suo saggio sulla pittura olandese, invita l’occhio all’ascolto dei quadri per cogliere in essi il silenzio che traduce la loro metafisica e la loro mistica. Questa metafisica e mistica è l’effetto della visibilità del quadro che è fatta di “gatteggiamenti”, di ombre, riflessi, di riflessi di riflessi e specchi piani o curvi che deviano e traspongono a nostro uso gli spettacol[17]. Secondo Merlau-Ponty, questa visibilità descritta da Claudel dimostra che lo specchio nel quadro , in cui Merlau-Ponty individua lo sguardo pre-umano che rappresenta il pittore, “abbozzi nelle cose il lavoro della visione”[18]. Questo significa che nell’arte pittorica, accade la reversione nel campo della visione di cui abbiamo ampiamente parlato nel paragrafo precedente: “nel quadro, scrive Merleau-Ponty, il mio sguardo erra “come nei nimbi dell’Essere”. Il mio sguardo diventa lo sguardo del quadro stesso: “più che vedere il quadro, io vedo secondo il quadro o con esso”[19]. Il quadro dunque “guarda” il soggetto, e con questo rovescia la situazione e pone il soggetto stesso nella posizione di “quadro” e di “macchia”.
Lacan trova nella pittura l’esemplare evidenza della schisi tra occhio e sguardo, così ha la possibilità di aggiungere “la pulsione scopica alla lista delle pulsioni. Se si sa leggere, ci si accorge che Freud la mette in primo piano già nelle Pulsioni e loro destini, e mostra che essa non è omologa alla altre. Infatti è quella che elude più completamente il termine della castrazione”[20]. Lo sguardo diventa l’organo sul quale può appoggiare la funzione libidica.
Nel 1965, Lacan scriveva: “Dello sguardo viene steso col pennello sulla tela, per far abbassare il nostro”[21]. La composizione del quadro è dunque deposizione del soggetto e del suo sguardo; il soggetto viene eliso come soggetto di rappresentazione ,e facendo quadro del soggetto stesso, “davanti al quadro, io sono sempre eliso come soggetto del piano geometrale”[22]. Lacan cerca l’evidenza esemplare di questo meccanismo negli Ambasciatori di Holbein della National Gallery.
In questo quadro del 1533 è rappresentata la dignità del potere, della scienza e delle arti. A una visione frontale, il quadro si offre allo sguardo, secondo una prospettiva classica, dove “tutto è stupendemente presente e mistiorosamente vero”[23]. I due personaggi sono fissi e rigidi nei loro ornamenti di parata. Tra di loro tutta una serie di oggetti che nella pittura dell’epoca raffigurano i simboli della vanitas. E’ il periodo in cui Cornelio Agrippa scrive il suo De vanitas Scientiarum, avendo di mira sia le scienze che le arti come in quel tempo erano allora raggruppate. Rispetto a tutti questi oggetti che possono essere identificati senza problemi, c’è un oggetto invece di difficile identificazione. Questo oggetto, definito da Baltrusaitis come simile a osso da seppia, è stato tradizionalmente definito come un foglio di carte[24]. Questo oggetto estraneo ed indecifrabile s’impone in tutta la chiarezza della sua forma e del suo senso solo quando il visitatore esce dalla porta, vale a dire quando si mette in una prospettiva diversa, e in quel momento può scorgere un teschio.
A proposito di questo teschio, Lacan dice: “Com’è che nessuno ha mai pensato di evocare qui…l’effetto di un’erezione? Immaginatevi un tatuaggio disegnato sull’organo ad hoc in stato di riposo, per assumere in un altro stato la sua forma per così dire sviluppata. Come non vedere qui, immanente alla dimensione geometrale – dimensione parziale nel campo dello sguardo, dimensione che nulla ha a che fare con la visione come tale – qualcosa di simbolico della funzione della mancanza – dell’apparizione del fantasma f
[1] J.Lacan, Il seminario, Libro XI, I quattro concetti fondamentali della psicanalisi, 1964, Testo stabilito da Jacques-Alain Miller, Edizione italiana a cura di Giacomo Contri, Einaudi, Torino,1979
[2] Merleau-Ponty, La fenomenologia della percezione, Il Saggiatore, 1965.
[4] Roger Caillois, L’occhio di Medusa, L’uomo, l’animale, la maschera, Raffaello Cortina Cortina, Milano, 1998, pag. 63.
[5] Roger Caillois, L’occhio di Medusa, L’uomo, l’animale, la maschera, Raffaello Cortina Cortina, Milano, 1998, pag.57.
[6] Paolo Gambazzi, L’occhio e il suo inconscio, Raffaello Cortina Editore, 1999, Milano, pag.100.
[7] J.Lacan, Il seminario, I quattro concetti fondamentali della psicanalisi, 1979, Einaudi, Torino.
[8] J.P.Vernant, La morte negli occhi. Figure dell’Altro nell’antica Grecia, tr.it. il Mulino, Bologna, 1987.
[9] Jean-Paul Sartre, L’essere e il nulla, Il saggiatore di A.Mondatori Editore, Milano, 1968, pag.287
[10] Jean-Paul Sartre, L’essere e il nulla, Il saggiatore di A.Mondatori Editore, Milano, 1968, pag.326
[11] Jean-Paul Sartre, L’essere e il nulla, Il saggiatore di A.Mondatori Editore, Milano, 1968, pag.327
[12] Paolo Gambazzi, L’occhio e il suo inconscio, Raffaello Cortina Editore, 1999, Milano, pag.106
[13] J.Lacan, Il seminario, I quattro concetti fondamentali della psicanalisi, 1979, Einaudi, Torino
[14] J.Lacan, Il seminario I, Gli scritti tecnici di Freud, Einaudi, 266,272
[15] J.Lacan, Il seminario, I quattro concetti fondamentali della psicanalisi, 1979, Einaudi, Torino, pag.84
[16] J.Lacan, Il seminario, I quattro concetti fondamentali della psicanalisi, 1979, Einaudi, Torino, pag.80.
[17] P.Claudel, Introduction à al peinture hollandaise, 1935.
[18] Paolo Gambazzi, pag.183.
[19] Paolo Gambazzi, L’occhio e il suo inconscio, Raffaello Cortina Editore, 1999, Milano, pag.186.
[20] J.Lacan, Il seminario, I quattro concetti fondamentali della psicanalisi, 1979, Einaudi, Torino.
[21] J.Lacan, omaggio a M.Dumas, pag.57.
[22] J.Lacan, Il seminario, I quattro concetti fondamentali della psicanalisi, 1979, Einaudi, Torino, pag.110.
[23] J.Baltrusaitis, Anamorfosi o magia artificiale degli effetti meravigliosi, Adelphi, Milano, 1978, pag.111.
[24] F.Zeri, Dietro l’immagine.Conversazione sull’arte di leggere l’arte, TEA, Milano, 1990.